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Stazioni: Civitella Casanova, Riccione, Amatrice, Pescara
1.2.1 Infanzia, scuola e formazione professionale
In Italia negli anni 50 il pane si faceva in casa. La farina integrale veniva setacciata separandone la crusca, che veniva data da mangiare alle galline, però non raggiungeva mai il grado di finezza che riusciva a raggiungere più in là l’industria alimentare. Nel mio paese natio, Civitella Casanova in provincia di Pescara, il pane si portava dal fornaio per farlo cuocere. Il lievito necessario per la crescita passava da casa in casa. La massa si deponeva su una tavola e si copriva con un’apposita tovaglia di tela, per portarle dal fornaio. Le massaie mettevano sul capo uno strofinaccio da cucina, avvolto a forma di corona, per poggiarvi la tavola con le masse sopra deposte, e si mettevano in cammino verso il forno. Dopo la cottura i pani raggiungevano un diametro di circa 60 cm. Quando ero piccolo, me lo disse mia madre più in là quando ero più grandicello, andavo alla mangiatoia delle galline, raccoglievo la crusca e la mettevo in bocca. Lei mi chiedeva se era buona ed io rispondevo di sì. Intanto il fornaio Matteotti iniziò a cuocere delle belle pagnotte e filoncini di pane di sua produzione, con una farina ancora più fina di quella che si setacciava in casa. Questo pane, molto più bianco di quello casereccio, soffice e con la crosta fragrante, era cosí buono che tutto il paese andava da lui ad acquistarlo. A volte mia madre mi mandava a comperarlo, e per me era difficile resistere alla tentazione. Di solito, quando rientravo a casa, essendo lunga la strada da fare dalla Piazzetta al Piano (dal forno a casa mia), mancavano le due punte di qualche filoncino. Quando andavo all’asilo, a scuola o alla colonia, mia madre mi riempiva la rete di frutta fresca che portavo a tracolla. Se facevamo scampagnate o andavamo al Santuario di San Gabriele ci portavamo pezzetti di pollo con patate al forno, che avevamo portato a cuocere dal solito fornaio, conditi con olio di oliva, rosmarino e aglio. Per cena, a volte, tostavamo sulla brace del caminetto fette di pane casereccio su cui mio padre strusciava l’aglio e poi metteva un filo d'olio. La pasta si comperava già nei negozi. Spesso si faceva in casa e fatta così era molto più buona. Ci si facevano minestre con fagioli, piselli, ceci, o cubetti di patate, con un po’ di sugo, oppure si facevano pastasciutte nei vari formati con sugo di pomodoro. Sulla pasta condita col sugo si spargeva il formaggio di pecora grattugiato che si comperava dai contadini produttori. Poco tempo dopo arrivò il parmigiano nei negozi e conquistò le tavole delle cucine del paese. Mia madre cuoceva spesso fagioli e verdura, molto spesso la bietola (in dialetto "le fojje"). I torsoli ricavati dalle verdure li preparava a parte e li serviva freddi o caldi, conditi con olio di oliva e sale. Il vino sia bianco che rosso e l’acqua non mancavano mai a tavola. Negli anni cinquanta l’acqua c’era solo in quattro fontane pubbliche sparse nel paese. Le donne andavano a prenderla tre volte al giorno con le conche (recipienti tipici abruzzesi in Rame decorati a sbalzo a mano) che venivano trasportate poggiandole sul cercine (panno raccolto a forma di ciambella) che proteggeva la testa e ripartiva il peso, a volte a mano libera. In ogni famiglia, compresi anche gli ospiti, l’acqua della conca si beveva con una specie di mestolo in Rame, sbalzato a mano esternamente e stagnato all'interno, chiamato ”maniere”. Dopo aver bevuto ci si lasciava un po’ d’acqua dentro e la si gettava in terra. Il getto serviva a purificare il maniere, che era così pronto per il successivo uso. In estate, anche quando l’acqua era disponibile in ogni casa, mia madre mi mandava a volte a prendere l’acqua fresca con un fiasco di cinque litri alla fonte della "Cavita" situata in un boschetto di querce affianco al paese. Nel sentiero per andare e venire si potevano osservare alcuni animaletti come scoiattoli, uccelli, grilli, ma anche more, fiorellini ed erbe selvatiche che potevano servire per fare un decotto. Quando si trovavano gli asparagi verdi selvatici, si raccoglievamo e si usavano per fare la frittata con le uova. Sopra la fonte della Cavita c’era un pianoro naturale, contornato tutt’intorno di querce, dove ci intrattenevamo a giocare o ad ascoltare le favole dei fratelli Grimm (Cappuccetto rosso ecc.) che ci leggevano le suore quando andavamo lì da bambini a trascorrere una giornata alla colonia estiva. Nel periodo prenatalizio o di carnevale si andava, di casa in casa, a giocare a tombola o a dama. Le mamme ci servivano dolcetti deliziosi o frutta secca. I fritti di carnevale erano comunque i miei preferiti. Per Pasqua si faceva un dolce a forma di pupa o colomba, per le femminucce, mentre, per i maschietti, lo stesso dolce aveva la forma di un cavallo. C'erano poi i pastoni (a base di formaggio). Spesso noi bambini venivamo invitati dai genitori degli amici a mangiare insieme. Mangiare in altre case ed in compagnia degli amici era molto bello. Nei pranzi di nozze, che si facevano in casa, non si sapeva mai cosa avrebbero servito. Di solito ero così affamato, dopo le funzioni religiose, che mi saziavo con la prima portata che arrivava. Poi ne venivano altre nove, una più gustosa delle altre, ma io non ce la facevo più. Grazie a Dio sono venuto al mondo e cresciuto in Italia dove i pasti sono gustosissimi. Il latte ce lo portava ogni mattina una mia cugina, distribuendolo con un bidone casa per casa. La mia giovinezza l'ho trascorsa prevalentemente in collegio dove ho avuto una ottima educazione scolastica, sia nella lontana Riccione, dove ho frequentato la scuola elementare dalla terza classe, che ad Amatrice, dove ho frequentato la scuola di Avviamento Professionale e l’Istituto Professionale di Stato. Per prima colazione ci davano latte e cacao, con pane da inzuppare e frutta. Per pranzo e cena, come primo c’era la pasta o riso in tutte le variazioni, e come secondo due volte la settimana c’era la carne, il venerdì pesce e sempre insalata e frutta. I cibi erano sempre gustosi e vari. A volte servivano una minestra con pastina e carne tritata dentro che non mi piaceva affatto. Amatrice è famosa in tutta Italia per la „Pasta alla Amatriciana“. Per le ferie estive ritornavo spesso a casa in Italia. Di sera ci incontravamo nel bar del paese, prendevamo un caffè o un cappuccino e guardavamo insieme la televisione, o giocavamo a carte o a bigliardo. Chi perdeva a carte, previ accordi stabiliti prlma di inziare a giocare, doveva bere una bottiglia di birra da tre quarti in un’unica bevuta continua senza interruzione (Passatella). A sera avanzata facevamo belle passeggiate in su ed in giù per il paese. A volte ci procuravamo delle angurie e facevamo a gara a chi finiva prima a mangiarne una fetta. Poi tiravamo fuori il pisellino e facevamo a gara per chi aveva il getto più lungo. Qualche volta a tarda ora, a casa di qualche amico, andavamo a cuocere degli spaghetti con aglio, olio, peperoncino e mollica di pane, sfregata fra i palmi delle mani, e soffritta con l'aglio, bevendoci insieme un bicchiere di vino. Ogni tanto andavamo in gita a Vestea o Villa Celiera, vicini al mio paese, dove nei locali ci servivano belle fette di prosciutto e di formaggio pecorino. Di giorno facevamo belle passeggiate, specialmente quando gli alberi da frutto erano carichi di frutta. In estate la mia faccia si riempiva sempre di lentiggini. Una volta passeggiavamo con il mio amico Riò, appena fuori dal paese, ed arrivati alla curva di Marchett, Riò vide un albero di gelso carico di more, e decidemmo di raccoglierne un pò. Passammo su un campo di grano, da poco mietuto, con le stoppie che ci facevano male alle parti scoperte dei piedi e, giunti vicini all’albero, vedemmo che le migliori si trovavano sui rami più alti. Nonostante Riò avesse un braccio ingessato salimmo sull’albero e ce ne facemmo una scorpacciata. Ad un tratto arrivò il padrone e ci scacciò via insultandoci in dialetto “I vrècc rutt brutt”, rivolgendosi a Riò, e “La faccia péndrecchièta brutt”, rivolgendosi a me. Oggi quando ci sentiamo per telefono ricordiamo con piacere questa bravata. Sensazionale a Pescara nell’anno 1963. Riapre restaurata la prima pizzeria di Pescara, vicina alla Stazione Centrale. Tutte le automobili della provincia cariche di amici si dirigono lì. Come accompagnamento si beve la „Birra Dreher“ alla spina. Fino ad allora la pizza si vendeva solo dai fornai, da portar via o da consumare per strada. A Napoli si vendeva al prezzo a metro quadro. I ristoranti e le trattorie non erano contenti di queste novità, perché temevano di perdere clienti. Quando andavo a trovare mia sorella ad Arsita, un paesino in provincia di Teramo, andavamo a volte a cena in un localino di campagna, dove degustavamo una specialità locale, "il coatto" (spezzatino di pecora). Nelle case ci offrivano l’amarena con acqua fresca. Mia sorella faceva il miglior timballo del mondo. Terminati gli studi, provai a trovare un posto di lavoro, e lo trovai, finalmente a Pescara, ma a 42 chilometri di distanza dal mio paese. La paga mi bastava solo per coprire i costi di trasporto andata e ritorno con l’autobus di linea. Decisi di rimanere in paese e di lavorare in proprio. Poi cominciai a riflettere se l’emigrazione poteva essere una buona soluzione, perché avrei potuto anche imparare una lingua straniera, considerando che anche Roma o Milano non erano tanto vicine a Civitella. L’ufficio del lavoro mi aiutò a regolare le pratiche necessarie per l’emigrazione.